mercoledì 22 giugno 2011

Occupazione e PIL vanno veramente di pari passo ?

Ho deciso di scrivere questo post perché sia di spunto all’interno della nostra associazione per cominciare a discutere di decrescita, di lavoro e di PIL. Penso che un’associazione come la nostra si debba far carico di trasmettere alla società che la circonda un’idea e un’alternativa a questo sviluppo economico impostato ora sul totem del PIL che deve crescere ad ogni costo.
La crisi che sta attraversando il mondo del lavoro, anche in termini di occupazione, rende necessario lo sviluppo di attività professionalmente più evolute e oggettivamente utili che creino beni e non merci. Per quanto riguarda poi la decrescita essa viene intesa nell’accezione più comune  come un sinonimo di recessione, ma non è affatto così. “Tra le due c’è infatti un rapporto analogo a quello tra chi mangia meno di quanto vorrebbe perché ha deciso di fare una dieta per stare meglio e chi è costretto a farlo perché non ha abbastanza da mangiare.” Negli ultimi anni, a peggiorare le cose e per far fronte alla recessione i governi (e i nostri si sono ben distinti in questo) hanno adottato le tradizionali e solite misure di politica economica a sostegno della domanda: riduzione della pressione fiscale (questo in Italia non è avvenuto per il grosso debito pubblico che ci strozza); deroghe alle norme urbanistiche per incentivare la ripresa dell’attività edilizia; incentivi all’acquisto di beni durevoli: automobili, mobili, elettrodomestici; copertura dei debiti delle banche con denaro pubblico (oltre 700 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti); grandiosi piani di opere pubbliche.  Queste misure non solo non sono state in grado di rilanciare il ciclo economico e ridurre la disoccupazione, ma hanno fatto crescere i debiti pubblici al limite dell’insolvenza. Per scongiurare questo pericolo i governi hanno bruscamente capovolto la politica economica, adottando drastiche misure di contenimento della spesa statale che tolgono ossigeno alla ripresa economica e alla prospettiva di ridurre la disoccupazione.
La decrescita e quindi il variare negativo del PIL porta per molti detrattori ad un ritorno al passato, e alla riduzione dei posti di lavoro, ma non è così. Questo è ciò che ci vogliono far credere facendoci balenare bisogni e necessità create ad arte dall’industria per venderci merci e mantenere lo sviluppo economico così come è ora a vantaggio di pochi e sulla pelle di miliardi di persone. Questa obiezione non regge alla prova dei fatti, mentre invece può essere vero il contrario, che cioè la decrescita, se correttamente intesa e guidata, probabilmente è l’unico modo per consentire, un aumento dell’occupazione e un superamento della crisi. “Dal 1960 al 1998 in Italia il prodotto interno lordo a prezzi costanti si è più che triplicato, passando da 423.828 a 1.416.055 miliardi di lire (valori a prezzi 1990), la popolazione è cresciuta da 48.967.000 a 57.040.000 abitanti, con un incremento del 16,5 per cento, ma il numero degli occupati è rimasto costantemente intorno ai 20 milioni (erano 20.330.000 nel 1960 e 20.435.000 nel 1998). Una crescita così rilevante non solo non ha fatto crescere l’occupazione in valori assoluti, ma l’ha fatta diminuire in percentuale, dal 41,5 al 35,8 per cento della popolazione.” Un sistema economico fondato sulla crescita della produzione di merci indipendentemente da valutazioni qualitative della loro utilità, impone che le aziende accrescano la loro competitività per aumentare la produttività, il che tradotto significa produrre sempre di più con sempre meno addetti. Questo può essere vantaggioso per l’azienda, ma a livello macroeconomico comporta simultaneamente una diminuzione della domanda e una crescita dell’offerta che è la reale causa della crisi economica attuale. Un esempio lampante di questo è la FIAT. “In Italia negli anni sessanta le automobili circolanti erano 1.800.000. Nel 2008 sono state 35 milioni. Se nei decenni passati il settore aveva grandi possibilità di espansione, oggi non ne ha più. Ha riacquistato un po’ di slancio con gli incentivi alla rottamazione, ma appena sono finiti, la domanda di nuove immatricolazioni è crollata quasi del 30 per cento da un mese all’altro nel 2010 e 2011. A livello mondiale l’eccesso della produzione automobilistica è circa un terzo del totale: 34 milioni di autovetture all’anno su 94 milioni. La scelta di puntare sul rilancio della produzione automobilistica non solo si è dimostrata fallimentare dal punto di vista economico, ma è anche irresponsabile dal punto di vista energetico e ambientale”. Resta difficile capire come si sia potuto credere e far credere che incentivando la domanda di prodotti che hanno saturato da tempo il mercato si potesse far ripartire la crescita economica. L’unica possibilità di FIAT e dell’industria pesante in Italia, e in futuro nel mondo, è di riconvertirsi a fare beni durevoli e utili (forse nella green economy) senza voler a tutti i costi produrre auto con l’aiuto degli stati (vedasi il trasferire la produzione in Serbia o in altri paesi dove ci sono incentivi). Il problema non è il costo del lavoro, il problema è la troppa produzione. Altro banale esempio ben noto a tutti è quello dell’edilizia. “Negli anni sessanta anche il settore dell’edilizia presentava grandi possibilità di espansione, sia perché era necessario completare l’opera della ricostruzione post-bellica, sia perché erano in corso movimenti migratori di carattere biblico dalle campagne alle città, dal sud al nord, dal nord-est al nord-ovest. Ora non è più così. Nel quindicennio intercorrente tra i censimenti agricoli del 1990 e del 2005 sono stati edificati 3 milioni di ettari di terreno: una superficie pari al Lazio e all’Abruzzo. Contestualmente il numero degli edifici inutilizzati è cresciuto. A Roma ci sono 245.000 abitazioni vuote su 1.715.000. Una su sette. A Milano 80.000 appartamenti su 1.640.000 e 900.000 metri cubi di uffici. I terreni agricoli adiacenti alle aree urbane sono costellati di capannoni industriali in cui non si è mai svolta la minima attività produttiva. Anche la scelta di puntare sull’edilizia come volano della ripresa economica si è rivelato un errore strategico e contemporaneamente una dimostrazione di irresponsabilità ambientale perché i consumi energetici degli edifici sono superiori a quelli delle automobili. Assorbono altrettanta energia, un terzo del totale, ma solo in cinque mesi per il riscaldamento invernale”. Questo consumo non fa altro che aumentare il PIL, ma ciò è un danno non un vantaggio (il vantaggio è solo per i produttori di energia e i paesi del petrolio che ricavano guadagni) oltre che aumentare l’inquinamento e contribuire all’alterazione del clima. Basterebbe ristrutturare gli alloggi, isolandoli meglio. Ci costerebbero di meno in termini energetici, inquinerebbero di meno e sarebbero beni più duraturi. I cantieri darebbero lavoro a migliaia di addetti, decrescerebbe negli anni successivi il PIL, ma non certo il benessere.
Riducendo il consumo di merci che non sono beni, il denaro che si risparmia deve essere necessariamente utilizzato per pagare gli investimenti,  i salari, gli stipendi, le parcelle, i guadagni di chi produce, commercializza, installa, gestisce e fa la manutenzione delle tecnologie che riducono il consumo di merci che non sono beni. Altro effetto devastante si è avuto nel settore agro-alimentare con la produzione di prodotti insapori, avvelenati e destagionalizzati dell’agricoltura chimica (che consuma grandissime quantità di energia e produce pochi posti di lavoro e quei pochi mal retribuiti), trasformati in cibi standardizzati dall’industria alimentare, trasportati a distanze anche intercontinentali e commercializzati dalla grande distribuzione organizzata. La rivalutazione dei prodotti tipici locali, delle coltivazioni autoctone, della stagionalità, delle cucine tradizionali,  delle filiere corte, dei mercati contadini, porta alla riscoperta di lavori utili, e di beni e non merci. In questa inversione di tendenza, i coltivatori biologici da una parte,  e i gruppi d’acquisto solidale dall’altra stanno ricreando una economia locale che sviluppa l’occupazione (che si andava perdendo in agricoltura), realizza prodotti svincolati dalla necessità delle mode, dal bello della pubblicità o dalla intermediazione commerciale con prezzi remunerativi per entrambi e qualità superiore. Bisogna decidere quali produzioni incentivare (l’indirizzo deve essere dato dalla politica e da noi stessi) e quali si ritiene opportuno ridurre. Non ci si può limitare a spendere grandi somme di denaro pubblico, che tra l’altro non ci sono, per finanziare grandi opere, di cui si conosce a priori l’inutilità, solo perché si ritiene che possano fare da volano alla ripresa economica, ma occorre finanziarie opere pubbliche che consentono di migliorare la qualità ambientale e la vita degli esseri umani. L’aumento a priori del PIL a tutti i costi non porta ad un aumento del benessere. 3 mesi prima di essere ucciso Robert Kennedy fece questo discorso all’America: “Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto nazionale lordo (PIL).
Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere Americani.” Il rileggerlo ora mi fa accapponare la pelle. Qui c’è tutta la contraddizione di uno sviluppo economico sbagliato e deleterio per il pianeta in toto.
Concludo questo scritto con una frase di Maurizio Pallante che è un augurio e una speranza che il lavoro possa riprendere negli anni futuri la dignità che merita perché è alla base del nostro modo di stare assieme agli altri sulla Terra e alla base della nostra costituzione che ogni tanto dovremmo rileggere e difendere come dice Benigni.
“La decrescita svela la follia insita nell’obbiettivo di creare occupazione come un valore in sé, omettendo di definire per fare che cosa. Solo una società malata, profondamente malata come quella che finalizza l’economia alla crescita del prodotto interno lordo può averlo pensato e può continuare a pensarlo anche di fronte all’evidenza di non riuscire più a farlo.
Nel tornante storico che l’umanità sta attraversando si può creare occupazione soltanto in lavori che consentano di superarlo attenuando i problemi e ponendo riparo ai danni creati dalla crescita della produzione e del consumo di merci. Soltanto liberando il fare dalla camicia di forza del fare tanto e restituendogli la sua connotazione qualitativa di fare bene si può dare lavoro e una speranza per il futuro a quanti ne sono privi”.
Ciao a tutti,
Claudio

domenica 19 giugno 2011

Finalmente qualcosa da festeggiare…

Finalmente qualcosa da festeggiare all’assemblea del Gasolo che si è tenuta martedì 14 giugno a ridosso del grandissimo risultato elettorale referendario al quale l’associazione ha dato il suo piccolo contributo. Questo esito è solo la partenza di un percorso che deve portare nuovi stimoli e favorire la partecipazione degli individui a scelte così importanti per la vita. Soprattutto per quanto riguarda l’acqua pubblica da ora cominciano le difficoltà. Non bisogna abbassare la guardia e l’attenzione dell’opinione pubblica e proseguire nel cammino di ripubblicizzazione dell’acqua a livello comunale.
A parte i festeggiamenti, all’assemblea erano presenti numerosi soci e sono stati trattati i vari punti che erano stati messi all’ordine del giorno, dalla relazione sulla visita a IRIS (pasta), alla proposta di alcuni nuovi fornitori, al percorso di autonomia dei GAS satelliti, e tanto altro che ora non sto a descrivere.
Finale con brindisi tra i presenti...

venerdì 10 giugno 2011

Dove vai domenica ?